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Stefano Faccendini: Il futuro del calcio passa dai tifosi
Abbiamo incontrato lo scrittore Stefano Faccendini, romano di nascita ma ormai londinese d’adozione. Nei suoi romanzi ha trattato spesso il tema degli ultra e gli abbiamo chiesto di fare un paragone tra la situazione italiana e quella d’Oltremanica. 
 
Lei ha dedicato vari libri al mondo degli ultras. Come mai ha fatto una scelta di questo tipo?
Ho scritto due romanzi sul mondo del calcio in Italia secondo il mio punto di vista. Non li vedo come libri sul mondo ultras, ce ne sono di piu’ accurati e veri scritti da persone che ultras lo sono o lo sono stati. Ma sono 30 anni che vado allo stadio in Italia e all’estero, penso di aver accumulato una certa esperienza in materia e credo anche di essere un buon osservatore. Io amo il calcio ma ancora di piu’ il mondo del tifo al quale mi sento di appartenere e al quale di sicuro appartengono i personaggi principali dei miei romanzi, positivi e negativi.

 
Lei da alcuni anni vive a Londra. Quali differenze ha riscontrato tra il modo di tifare in Italia e quello di tifare Oltremanica?
Io vengo in Inghilterra a vedere partite da quando avevo 17 anni, ora ne ho 41. Non e’ solo una questione di tifo ma di civilta’, di cultura, di approccio diverso al calcio. La verita’ e ‘ che qui le cose sono cambiate negli anni mentre da noi sono rimaste le stesse perche’ nessuno ha avuto interesse, e sottolineo la parola interesse, a cambiare. Ora che ci si accorge di essere rimasti indietro si prova a colpi di decreti e di misure anticostituzionali a recuperare il tempo perduto. Quello che in Italia si spaccia per modello inglese non e’altro che un approccio repressivo adottato qui a fine anni 80 che ormai da lungo tempo e’ stato sostituito da un dialogo sempre piu’ fitto con i tifosi. L’altra parte del “modello inglese” che fa gola e’ il volume di affari della Premier League, il campionato piu’ seguito del pianeta. Non ci sono le condizioni di base per replicarlo. Se invece di giocare a Monopoli con i soldi dello Stato nel 1990 si fossero rifatti bene gli stadi e dati in gestione alle societa’ gia’ una base di partenza sarebbe stata creata. Invece basta vedere quano successo a Torino con il Delle Alpi per capire l’approccio completamente diverso. Ora, e’ chiaro che il futuro del calcio sia nelle mani dei tifosi e non delle televisioni come si crede da noi. I soldi di Sky sono importanti ma con spalti vuoti e spettatori disegnati non si va da nessuna parte perche’ il prodotto non si vende. Se si vogliono clienti, come in UK, i clienti vanno trattati meglio, non a colpi di diffide e di manganello. Qui i tifosi sono sempre piu’ partecipi nella vita e nella gestione delle societa’ di calcio. Il futuro passa da noi, non dalle persone che per qualche anno mettono soldi e poi spariscono quando vedono che l’investimento non da’ i risultati sperati. Ovvio che al momento chi voglia investire nel calcio guardi all’Inghilterra o alla Spagna al limite, dov’e’ c’e’ un regime fiscale piu’ favorevole, piuttosto che all’Italia dove gli stadi non sono di proprieta’ e soprattutto sono vuoti.
Il vero modello inglese e’ quello dei Trust dei tifosi che in Italia ora qualche tifoseria sta cercando di seguire ma che non riceve la copertura sperata da parte dei nostri media (soltanto Report se ne e’ occupata) perche’ non fa notizia. Da noi perche’ si parli di tifosi o di ultras deve succedere qualcosa di negativo e allora sta su tutti i giornali ma delle iniziative benefiche e di solidarieta’ non ne parla mai nessuno. Qualcuno mi ha risposto che l’informazione funziona cosi’. Funziona male allora.

 
Perché in Inghilterra sono riusciti a riportare le famiglie negli stadi mentre qui da noi questa sembra una pura utopia?
Anche questi sono luoghi comuni. In Inghilterra hanno filtrato gli spettatori in base al reddito. Se una volta il calcio era considerato “the working class ballet” ora e’ un fenomeno decisamente “middle class”. I prezzi dei biglietti sono esorbitanti e il genere di clientela, perche’ di questo si tratta, e’ del tipo “vengo se si vince”. Non c’e’ piu’ una base fedele, un senso appartenenza al club che esulava dalle vittorie, che era presente in tempi di vacche grasse e magre. Questa e’ l’era dei “corporate fans” di chi ha i biglietti e abbonamenti attraverso gli sponsor, di chi va allo stadio per intrattenere un cliente in una serata d’affari. Chi ha abbastanza soldi puo’ permettersi anche di portare i figli e di ingozzarli con nachos e hot dogs ma dubito che siano di piu’ di quando l’operaio della fabbrica si caricava il figlio sulle spalle e vedeva in piedi la partita. Se il Manchester United non si qualifichera’ per la prossima Champions o l’Arsenal, gli spalti non saranno cosi’ gremiti. E non sono gremiti al momento quelli di numerosi club non di prima fascia diciamo. Quello che e’ vero e’ la differenza abissale che c’e’ tra le divisioni inferiori inglesi e quelle negli altri principali paesi europei. Ma questa e’ anche una reazione ai prezzi troppo alti della Premier. Io quando gli stadi erano pieni in Italia i ragazzini me li ricordo. Ma se adesso anche ai minori di 14 anni vogliono far fare la TdT invece di regalare i biglietti, che ci aspettiamo?

 

 
Per restare in tema, cosa pensa della tessera del tifoso imposta dal Viminale?
Penso quello che pensano tutti i tifosi, e’ una fesseria, un imbroglio, una cosa inutile che costerebbe la faccia a troppa gente, ministri inclusi, e per questo motivo non viene rimossa. Da noi nessuno si dimette, nessuno ammette di aver sbagliato, nessuno riconosce di aver mentito per interesse. Quando la Thatcher suggeri’ una cosa del genere negli anni 80 fu zittita da tutti e all’epoca il problema della violenza era serio. Qui si e’ voluta mascherare un’abile operazione finanziaria e commerciale come una una regola a tutela del tifoso, si e’ voluto far credere che l’ennesima violazione delle liberta’ fondamentali dell’individuo e della legge sulla privacy sia nell’interesse della sicurezza di tutti. Un altro motivo, tra i tanti, per cui ci ridono dietro.

 
Come nasce un suo libro? Si basa su storie vissute oppure lavora di fantasia?
Entrambe le cose. Ne “La trasferta” io ne avevo in mente una ben precisa ma parlando con tifosi di altre squadre, diverse dalla mia, ognuno ha detto di essere rimasto coinvolto in una situazione molto simile. Purtroppo certi avvenimenti, certe reazioni e certe disgrazie nel mondo del calcio, del tifo, si ripetono e sono tristemente prevedibili. Ovvio che poi certi avvenimenti o comportamenti estremi li immagino perche’, grazie al cielo, non ne sono mai stato testimone.

 
Per lei scrivere rappresenta più una valvola di sfogo o una necessità per raccontare il mondo agli altri?
Anche in questo caso devo rispondere entrambe le cose. A me fa male vedere il calcio ridotto in questo modo. Un calcio corrotto, dopato, stravolto nei suoi valori e principi. Fa male vedere gli stadi non vuoti ma svuotati, che e’ diverso. La gente e’ stata convinta, quasi costretta, a rimanere a casa o, per lo meno, scoraggiata in tutti i modi. Tutti coloro che hanno infangato il nome dello sport ancora sguazzano comodamente nell’ambiente. Gli unici fatti passare per colpevoli sono i tifosi, per me le vere vittime. Spesso si cita la violenza come motivo della scarsa presenza sugli spalti. Balle. Gli anni degli stadi pieni in Italia erano quelli, se vogliamo, piu’ pericolosi, fine anni 80, anni 90, primi di questo secolo. Basta vedere i dati, la grande flessione c’e’ stata dopo Calciopoli e non e’ bastata la vittoria in coppa del mondo degli azzurri a colmare quel vuoto di fiducia che ormai si era creato. Io insisto nel dire che quella Coppa e’ stato un male per il calcio italiano, ha consentito a molta gente di riciclarsi e ad altri di coprire tutto lo schifo facendo una agonia un po’ piu’ lunga come una resurrezione.

 

Quali sono gli autori che più hanno influito sul suo stile e sulla sua formazione culturale?

Mah, non saprei. Io leggo tantissimi libri sul calcio, vado per argomento piu’ che per autori. Diciamo che cerco di informarmi il piu’ possibile, di documentarmi su quanto succede in altri paesi. Qui in Inghilterra la letteratura sportiva e’ molto piu’ diffusa e c’e’ moltissima scelta. Il calcio e’ considerato parte della storia e della cultura di un paese, non soltanto un fenomeno per gente che sta inchiodata davanti alla televisione. E’ un fenomeno sociale e come tale e’ studiato, anche all’unoiversita’, sotto ogni tipo di angolazione. Per fare dei nomi comunque apprezzo molto il lavori di John King e Nick Hornby per i romanzi e di Jonathan Wilson e Simon Kuper per scritti sul calcio vero e proprio.

 

Quanto sono importanti le presentazioni ed il contatto diretto con il pubblico per promuovere i suoi libri? Le case editrici con cui ha pubblicato l’hanno aiutata da questo punto di vista?

Sarebbero importanti ma purtroppo io non dedico molto tempo molta promozione, spero piu’ che altro nel passaparola! Non ne faccio una colpa al mio editore, vivendo all’estero e’ tutto molto piu’ complicato.

 

Che consiglio si sente di dare a chi sogna di fare lo scrittore?

Mi sentirei presuntuoso nel rispondere a questa domanda, non mi sento uno scrittore ma una persona a cui piace scrivere e che ha trovato attraverso storie vere o racconti un modo per far sentire, anche se alle poche persone interessate a farlo, la mia voce, quella di un tifoso arrabbiato e che tenta di dire le cose come stanno, non come cercano di farle apparire, in maniera indipendente e senza filtri.

 

Adesso a cosa sta lavorando? Quando potremo leggerlo?

Ho due progetti, dopo averne scartato recentemente uno a cui avevo inziato a lavorare. Entrambi sono nella mia testa, se dovessi tradurli in tempo penso almeno un paio d’anni ma prima devo scegliere a quale dare la precedenza. Non sono romanzi ma racconti sul mondo del calcio, uno italiano, l’altro inglese. Vedremo.


 
Biografia: nato a Tivoli (Roma) nel 1969, vive e lavora a Londra da molti anni.
Per i tipi delle Edizioni Clandestine ha pubblicato “La trasferta”, “Noi siamo il Wimbledon” e “Tifosi & ribelli”

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